venerdì 3 febbraio 2012

Iran-Usa: pronti alla guerra?

INTERNATIONAL BUSINESS TIMES, MONDO



Di Roberto Capocelli, Dario Saltari
Se l'amministrazione Obama ha ormai da tempo cambiato rotta, abbandonando i negoziati in favore di forme di dissuasione "dure" contro l'Iran, anche il Congresso sembra fargli eco.
Un'organizzazione no-profit formata da parlamentari statunitensi di tutti i colori politici, il Bipartisan Policy Center (Bpc), infatti, ha rilasciato un dossier, pubblicato il primo febbraio, che  invitava gli Stati Uniti a prendere in considerazione la possibilità di un'azione militare per fermare le aspirazioni nucleari iraniane.


Per l'Organizzazione si tratterebbe, in realta' di un deterrente che addirittura potrebbe servire ad evitare di essere "costretti" alle estreme conseguenze e all'uso della forza.
Secondo il ragionamento politico del BPC, "è precisamente la minaccia militare lo strumento che, in realtà, permette soluzioni pacifiche o diplomatiche".
Senza giri di parole, l'organizzazione guidata da Charles Robb, senatore democratico della Virginia, sottolinea nel suo report che "gli Stati Uniti devono portare l'Iran a fare una scelta: abbandonare il suo programma nucleare attraverso un accordo negoziato oppure vederlo distrutto militarmente dagli Usa o da Israele".
... Uno strano intervento
È uno strano intervento quello del direttore del National Intelligence statunitense James Clipper che, negli scorsi giorni, ha affermato di fronte al Senato: "non sappiamo se l'Iran voglia effettivamente costruire armi nucleari", ma, "se volesse, avrebbe le capacità di produrre un ordigno atomico".
Una tautologia, come ama dire qualche smorfioso professore universitario, o, più semplicemente, una ovvietà.
È risaputo infatti, fra gli addetti ai lavori, che il processo di sviluppo dell'energia atomica, sia militare che civile, segue un percorso assolutamente parallelo e sovrapponibile fino ad uno stadio sovrapponibile fino ad uno stadio chiamato "the edge point": è solo arrivati a questo punto che i due percorsi si dividono e diventa riconoscibile l'eventuale volontà di voler proseguire su un terreno puramente militare.
Raramente viene ricordato ma, ad oggi, nessuno ha mai portato la benché minima prova che l'Iran sia giunto all'edge point, e, tanto meno, che lo abbia passato addentrandosi nel cammino verso la famosa "bomba".
C'è di più: l'Iran come membro firmatario del Trattato di Non Proliferazione ha diritto a ricevere assistenza dall'AIEA per sviluppare programmi finalizzati alla produzione di energia atomica per scopi civili.
Dunque, qual e' la vera, profonda natura del "problema" nucleare iraniano?
Nel 1983 le relazioni fra USA e Iran erano difficili: c'era stata da poco la Rivoluzione islamica che aveva deposto uno dei più importanti alleati statunitensi nella regione, un vero e proprio fantoccio messo al potere grazie ad un colpo di stato, lo Shah di Persia Reza Pahlavi.
E c'era stata anche l'umiliazione degli americani con la crisi dei diplomatici statunitensi sequestrati nell'ambasciata di Teheran e il conseguente fallimento dell'operazione di riscatto che costò la vita a 8 membri delle forze speciali USA.
Una delle ritorsioni adottate da Washington, che, in quell'occasione, vedeva naufragare uno dopo l'altro i tentativi di arginare l'influenza degli Ayatollah, fu proprio quella di esercitare forti, "dirette pressioni" sull'AIEA perché interrompesse l'assistenza, fornita alle autorità nucleari iraniane, per lo sviluppo di combustibile atomico di tipo UO2 e UF6. Si trattò, di fatto, di una violazione dei termini di quello stesso Trattato di Non Proliferazione che, oggi, si accusa l'Iran di non rispettare.
Una scelta politica
Gli Stati Uniti si fecero promotori quindi, già da allora, di una campagna di isolamento della neonata Repubblica Islamica con il fine di contrastare la crescita di una potenza regionale ostile.
L'opposizione al programma nucleare iraniano dunque, sin dagli inizi, appare soprattutto motivata e determinata da valutazioni eminentemente politiche e non tecniche.
Del resto, in quest'ottica, il senatore Mark Kirk, ex ufficiale dell'intelligence USA, affermava l'anno scorso: "la comunità d'intelligence dovrebbe avere un punto di vista meno tecnico e più incentrato sulle azioni della leadership iraniana quando valuta il tema del nucleare in Iran". "Nel processo dell'intelligence", proseguiva il senatore, "ci insegnano a valutare le capacità e le intenzioni da un punto di vista politico, e le intenzioni da parte del regime iraniano sono abbastanza chiare".
La chiarezza non molto chiara...
Da molte, autorevoli voci, arrivano però letture molto diverse in merito alle intenzioni iraniane: lo scorso settembre, durante un seminario presso l'Istituto Antiterrorismo di Tel Aviv, non proprio un luogo in odore di simpatia verso Teheran, il prof. David Menashri, stimato esperto in questioni iraniane, affermava che, nei fatti, sin dalla sua nascita, il regime degli Ayatollah alterna, in politica estera, ad una retorica bellicosa delle azioni in realtà molto pragmatiche.
Il mese scorso, per esempio, avevamo assistito ad una escalation "verbale" da parte di Teheran, che aveva "spaventato" il mondo rispetto alla presenza di navi da guerra statunitensi nello stretto di Hormuz che, si disse, non sarebbe stata tollerata in nessun modo: i falchi anti-Teheran non persero l'occasione per ricordarci quanto siano pericolosi e fanatici gli iraniani e quanto sia necessario porre un freno alle loro angherie.
Oggi, la portaerei Abraham Lincoln, una delle punte di diamante della flotta americana, incrocia tranquillamente indisturbata nelle acque del Golfo Persico: la reazione delle autorità iraniane è stata niente altro se non una semplice dichiarazione in cui si afferma che "la presenza della portaerei rientra nelle normali attività che, da sempre gli Usa, svolgono nel Golfo".
L'attacco di Israele a Giugno
Ma, nonostante l'approccio spesso pragmatico di Teheran, la volontà di premere per mettere l'Iran in cima alla lista delle priorità da parte israeliana sembra non accennare a ridimensionarsi. A confermarlo ci si è messo pure il segretario della difesa statunitense, Leon Panetta, che, in un'intervista al Washington Post, ha evidenziato la possibilità di un attacco israeliano nei confronti dei siti nucleari di Teheran entro il prossimo giugno.
L'intervento di Panetta è un dato senza dubbio significativo dato che il Segretario della Difesa non condanna, né tanto meno approva, un possibile attacco israeliano, ma sembra comunque confermare la possibilità reale dell'esplosione di un conflitto militare.
Tel Aviv, infatti, continua ad essere convinta, nonostante le autorità di Teheran affermino il contrario, che l'Iran stia arrivando ad avere la capacità di poter arricchire l'uranio al 90%, ovvero al livello di proliferazione di tipo militare.
"È possibile bombardare i siti iraniani. E lo dico sulla base della mia esperienza come Capo di Stato Maggiore dell'Aviazione israeliana" ha affermato il ministro per gli Affari strategici israeliano, Moshe Yaalon.
La possibilità di un attacco militare israeliano nei confronti dell'Iran, sarebbe tacitamente accettata dagli Stati Uniti che, nonostante le ultime difficoltà nei rapporti diplomatici, considerano Israele come il principale alleato e vero e proprio avamposto strategico all'interno del complesso scacchiere del Medio Oriente?
L'interrogativo resta aperto.
Anche l'Iran si prepara?
La Repubblica Islamica, dal canto suo, da' segnali di voler prendere sul serio le minacce e di voler essere in grado di far fronte al pericolo di un eventuale attacco militare portato avanti dall'asse Tel Aviv -Washington.
Il presidente iraniano Ahmadinejad, infatti, ha proposto lo scorso mercoledì al Majlis, il parlamento iraniano, un incremento del 127% del budget per la difesa, che, attualmente, ammonta a circa 12 miliardi di dollari.
"Dato l'aumento della pressione e delle minacce contro l'Iran, è stato necessario aumentare il budget per la difesa", ha affermato il parlamentare iraniano Jahanbakhsh Amini all'agenzia di stampa Reuters.
La scelta di Ahmadinejad, però, non è senza conseguenze e, in un momento non proprio facile per l'economia del Paese, potrebbe contribuire ad affossare un sistema produttivo, come quello persiano, che risulta essere già in difficoltà a causa anche delle ripetute sanzioni economiche europee e statunitensi nei confronti del petrolio iraniano, principale fonte di ingressi della Repubblica Islamica.
A complicare ulteriormente la situazione si aggiungono anche le prossime elezioni parlamentari, che si terranno il 2 marzo prossimo, e che rappresentano un test per il consenso di Ahmadinejad. Se i dati economici non dovessero migliorare (in questo momento l'inflazione viaggia intorno al 20%) la popolarità del Presidente potrebbe improvvisamente crollare aprendo ulteriori crepe all'interno del già diviso sistema di potere iraniano.



 
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